Nadejda Komendantova è ricercatrice senior e capogruppo del gruppo Cooperazione e governance trasformativa presso l’Istituto internazionale di analisi dei sistemi applicati, nonché professoressa presso l’Istituto di gestione avanzata per la scienza, la tecnologia e gli studi di sviluppo applicati in Botswana (AMISTAD).
Secondo il Merriam-Webster Dictionary, la disinformazione è solitamente definita come un’informazione inaccurata o falsa, che viene diffusa intenzionalmente attraverso vari canali di comunicazione. La disinformazione non è un fenomeno nuovo. Non appena l’umanità ha acquisito la capacità di comunicare, la disinformazione ha fatto la sua comparsa. Tuttavia, lo sviluppo delle tecnologie digitali ha influenzato drasticamente la diffusione della disinformazione, rendendola quasi universale. Con l’intento di attirare visitatori sulle loro piattaforme, un singolo tweet non verificato di potenti “influencer” può incidere sulla vita delle persone in modi inaspettati.
Digitali, veloci e apparentemente spontanei, i social media accelerano la diffusione virale delle espressioni emotive di paure primordiali, aggressività e disprezzo delle persone. L’anonimato di chi condivide i contenuti e la sostanziale assenza di meccanismi sanzionatori consentono di travisare i messaggi, di utilizzare persino un linguaggio discriminatorio e di incitare all’odio nei confronti di individui o gruppi di persone.
Essendo un ambiente così carico di emozioni, i social media favoriscono un processo cognitivo che viene solitamente definito “ragionamento emotivo”, in base al quale gli individui concludono che la verita’ dei fatti si basa sulle loro reazioni affettive, nonostante prove empiriche contrarie. Introdotto per la prima volta dallo psichiatra Aaron Beck, il ragionamento emotivo crea una “verità emotiva”, che può essere in diretto conflitto con le informazioni basate sui fatti. Questo processo cognitivo spiega come i social media siano un ambiente particolarmente incline alla disinformazione che favorisce condizionamenti e pregiudizi, con conseguenti discriminazioni, aumento dell’intolleranza verso punti di vista diversi e trattamento ingiusto di alcuni gruppi sociali.
La migrazione è spesso oggetto di disinformazione. Le attitudini nei confronti dei migranti sono influenzate da opinioni e percezioni che, a loro volta, sono influenzate dai social media. Le percezioni nei confronti dei migranti sono costrutti soggettivi, sensibili non solo a fattori quali la socializzazione, l’esperienza, la consapevolezza, l’educazione e le norme morali, ma anche all’informazione.
Mentre i media tradizionali offrono ancora un’esperienza prevalentemente passiva a chi consuma informazioni, i contenuti sui social media scatenano reazioni in un ambiente in cui tutti possono commentare ed esprimere opinioni sull’argomento, creando un intero flusso di sentimenti.
Al di là dei semplici like, questi sentimenti danno forma alla “verità emotiva” che gioca un ruolo estremamente importante nella formazione di pregiudizi e idee erronee, in quanto fornisce il terreno per colmare le lacune nelle informazioni disponibili o per sostituire l’esperienza personale mancante. Questo spiega perché i migranti, in particolare quelli provenienti da Paesi con culture poco familiari, provocano un maggior numero di preconcetti a causa del loro aspetto, del loro abbigliamento o della forma di comunicare.
Sviluppare strumenti digitali per contrastare la disinformazione sui social media offre uno dei possibili approcci per arginare gli effetti perversi della “verita’ emotive”. Secondo una nuova ricerca condotta dall’Istituto Internazionale per l’Analisi dei Sistemi Applicati (IIASA) nell’ambito dei progetti CORE e Co-Inform finanziati dalla Commissione Europea, strumenti digitali opportunamente sviluppati possono stimolare il pensiero critico e attirare l’attenzione sui contenuti disinformativi senza censurare internet.
Il progetto ha testato strumenti digitali come un plugin per il browser, una dashboard per il fact-checking e un canale Twitter, per stimolare il pensiero critico e il desiderio degli utenti dei social media di cercare maggiori informazioni. Questi strumenti offrono la possibilità di smascherare la disinformazione, evidenziando al contempo il fatto che le informazioni potrebbero provenire da una fonte che ha già la reputazione di diffondere informazioni errate. L’obiettivo di questi strumenti è quello di interrompere il ciclo di reazioni intuitive basate su percezioni personali o feedback emotivi. Incoraggiano gli utenti di Internet a pensare in modo critico, a cercare ulteriori informazioni sull’argomento o sulla notizia, piuttosto che seguire l’istinto immediato di diffondere ulteriormente il contenuto potenzialmente disinformante.
Internet ha influenzato il mondo dell’informazione in modo imprevedibile, ponendo dilemmi su come bilanciare la libertà di espressione con la necessità di prevenire la disinformazione e il suo impatto dannoso sugli individui e le società. È particolarmente importante sviluppare misure politiche e operative per aumentare la resistenza degli utenti e dei consumatori alla disinformazione. L’intelligenza artificiale può offrire strumenti validi che meritano di essere esplorati ulteriormente, rinnovando al contempo gli sforzi offline e online per mobilitare l’attenzione intorno alle fonti di testi, immagini e video. Un compito non facile in tempi di Chat GPT e di una miriade di software per la creazione di contenuti di intelligenza artificiale che si sono infiltrati di recente nello spazio online.